Just Charlie – diventa chi sei

Just Charlie – diventa chi sei

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Charlie arriva nelle sale italiane Giovedì 23 Gennaio e sono contenta di averlo visto e poterne parlare in anteprima. Il programma che mi ero fatta era di vederlo insieme ai miei figli (6 e 9 anni) e qualche loro piccolo/a amica/o ma notevoli resistenze da parte di mio marito e, più formali e lievi, degli altri adulti di riferimento (tranne una mamma) mi hanno portato a guardarlo da sola, domandandomi: di cosa abbiamo paura? Charlie è un adolescente della provincia inglese con un grande talento per il calcio. Una delle squadre più importanti, il Manchester City, gli offre un ingaggio da sogno, ma Charlie ha un segreto: è felice solo quando, di nascosto, può vestirsi da ragazza. Intrappolata nel corpo di un ragazzo, Charlie è combattuta tra il desiderio di compiacere le ambizioni che il padre ripone in lei e il bisogno di affermare la propria identità. Grazie al supporto della madre e della sorella sceglie di intraprendere il cammino vero se stessa, passando con grazia e coraggio attraverso il fuoco del giudizio degli altri. Questo film, debutto alla regia per Rebekah Fortune, è un racconto di formazione molto particolare che ci mostra cosa sia la disforia di genere e cosa significa viverla quando si è all’inizio dell’adolescenza, poco più che bambini. Ha la capacità di suscitare diversi gradi di immedesimazione, si sentono le urgenze di Charlie, si sente l’amore incondizionato di sua madre e si sente anche la paura e la delusione del padre che riesce a trasformarsi in altro. E’ un film delicato e allo stesso tempo forte, secondo me adatto ad una visione in famiglia – con la mia ci riprovo –  che stimola in tutti un atteggiamento di non giudizio. Grandissima prova d’attore per il giovanissimo Harry Gilby.

Marina Abramovič spiegata ai bambini

Marina Abramovič spiegata ai bambini

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Palazzo Strozzi ha dedicato la sua prima grande mostra  “al femminile” – “The Cleaner”, appena conclusasi con successo – alla nonna/ragazza eterna  della performance art Marina Abramovič. E’ stata l’occasione per offrire, finalmente, un articolato percorso organico sulla sua produzione artistica anche al grande pubblico italiano, proprio in un momento in cui i temi trattati sono più che mai presenti. L’immaterialità della performance, la negazione del manufatto artistico tradizionale e la rielaborazione del concetto di unicità, l’indagine sugli stati interiori e la condivisone attraverso l’audiovisivo,  sono solo alcuni dei ponti che dagli anni ’70 dello scorso secolo ci troviamo agganciati a questo 2019. E a lanciarli è stata Marina, l’inarrestabile visionaria, sicuramente bendata mentre scagliava al mondo, e molto spesso proprio dall’Italia, le sue esperienze profetiche. E’ il 1974 quando alla Galleria Diagramma di Milano,  Marina presenta l’opera  “Rhythm 48”: <Ero nuda e sola in una grande stanza, accovacciata sopra un potente ventilatore industriale. Mentre una videocamera trasmetteva la mia immagine al pubblico nella stanza di fianco, spingevo la faccia contro il vortice che usciva dal ventilatore, cercando di inspirare nei polmoni più aria possibile. Nel giro di un paio di minuti, l’impetuoso flusso d’aria all’interno del mio corpo mi fece svenire. […] la cosa più importante era farmi vedere in due stati diversi: vigile e priva di sensi. Sapevo di sperimentare nuovi modi per usare il mio corpo come materia prima>. Qui 2019, Marina ce l’ha fatta: si è imposta allo scenario artistico mondiale attraverso l’autodeterminazione e l’incessante sperimentazione della sua propria persona, del suo proprio corpo. I miei figli hanno una otto anni appena compiuti e l’altro quasi sei. Con il padre decidiamo che questa sarà la loro prima grande mostra. E per nostra grande fortuna, negli ultimi affollati giorni, riusciamo ad unirci ad uno dei percorsi guidati che Palazzo Strozzi ha pensato per raccontare quest’affascinante storia  ai più piccoli: il percorso per bambini dai sei ai dodici anni “Vestirsi d’energia”. Ci sono due ragazze nella stanza e ci distribuiscono delle etichette adesive su cui ognuno di noi deve scrivere il nome. Saremo un gruppo coeso, formato da piccoli nuclei famigliari,  che attraverserà la mostra in mezzo a una folla di singoli spettatori. Noi saremo una squadra e la mostra non la visiteremo ma ne faremo esperienza, impegnandoci a concentrarci, metterci alla prova e potenziare l’energia, lo scriviamo anche su un contratto. E qui vedo la difficoltà di mia figlia che, prima di firmare, con gli occhi mi dice “ma io voglio stare solo con te mamma, e con papà. Al massimo Fede. Ma tutte queste altre persone, perchè?”. So che supererà questa resistenza iniziale, lo fa sempre. Ci distribuiscono una mascherina per gli occhi e la indossiamo. Impariamo a fare silenzio. Impariamo ad urlare e a creare energia con le nostre mani. Facciamo gli esercizi che fa Marina per   riscaldarsi. E siamo pronti per entrare in mostra.

pitti immagine bimbo e proj3ct studio6pitti immagine bimbo e proj3ct studio0pitti immagine bimbo e proj3ct studio1La prima tappa è il lavoro di Marina con Ulay. Ci sediamo a osservare proiettato in grande sul muro “Rest Energy”

Due persone che si amano. Lui punta la freccia al cuore di lei. Lei tiene l’arco. I quattro minuti più lunghi della loro vita, diranno poi. Una performance che non hanno mai ‘provato’ e che non rifaranno mai più. Un’istantanea del loro rapporto nel momento di massimo splendore. Ognuno condivide le sue osservazioni con il gruppo, io mi accorgo adesso che non si vede mai il viso di Ulay. I miei bambini non dicono niente ma quando il filmato l’hanno visto a casa hanno detto “questi sono matti, è pericoloso”. Poi ci spostiamo ad osservare gli oggetti magici che Marina e Ulay hanno messo insieme dopo il loro allenamento con gli Aborigeni, in Australia. Un piccolo elefante di pietra, dell’oro grezzo, un cristallo rosa, una bacchettina di carta. Nel deserto hanno imparato come accumulare energia in condizioni estreme (caldo forte, poco cibo, poca acqua). E questa energia servirà loro nelle performance che faranno in giro per il mondo, insieme. Hanno imparato a caricare gli oggetti di energia, in modo da poterli usare per sostenersi nei momenti più difficili. Ci spostiamo davanti a The Lovers, la sala è affollatissima e noi siamo fortunati perché del video che gira in loop ci capita l’incontro finale di Marina e Ulay che decreterà la loro separazione.

Che era poi la parte che speravo di non vedere perché, come per la scena di E.T in cui i ragazzi volano con le biciclette e c’è di sfondo la luna, non riesco a bloccare i lacrimoni. Quindi piango, un po’ vergognandomi, davanti ai miei figlie e al gruppo coeso che, senza parlare, mi dice non importa, va bene così. Le ragazze spiegano il ruolo del destino nell’arte di Marina: quella traversata avrebbero voluto farla fin dall’inizio della loro relazione, solo che prima di riuscire ad ottenere tutti i permessi dalla Cina ci hanno messo otto lunghi anni. Le cose nel mentre sono cambiate ma il loro rigore e la loro necessità di sperimentare li ha portati a non rinunciare al progetto. Solo che invece che il loro grande amore si sono trovati a celebrarne, in grande, la fine. Un amico che ha visto il video per la prima volta il giorno stesso della mostra ha così commentato “quella freccia che Ulay tendeva anni prima, l’ha scagliata in quell’incontro”. Ci spostiamo nella sala delle pietre e della casa con le scale a coltello.

(c)giulia del vento_strozzi_07.10.2018_bassa (28 di 57)(c)giulia del vento_strozzi_07.10.2018_bassa (23 di 57)(c)giulia del vento_strozzi_07.10.2018_bassa (27 di 57)the cleaner

Qui ognuno riceve un foglietto su cui è scritto un esercizio da fare. A me, mia figlia e mia nipote capita “la sedia”. Ci dobbiamo sedere su una bella sedia il cui schienale è rivestito di cristalli rosa, concentrarci e registrare cosa sentiamo per poi condividerlo con il gruppo. Io e mia nipote sentiamo calma, mia figlia sente fiducia.  Le ragazze ci raccontano di quella strana casa con le scale taglienti in cui Marina ha vissuto per dodici giorni all’interno del Moma a New York. C’erano un sacco di regole da osservare: non si poteva mangiare, non si poteva parlare, bisognava trovare dei modi alternativi alla parola per interagire con il pubblico che osservava l’artista nella sua lunga performance. Ci raccontano che quando Marina alla fine è scesa, non dalle scale ma con un carrello elevatore, era molto molto stanca e ogni suo gesto era a rallentatore. Ci spostiamo nell’ultima stanza, quella in cui c’è The Artist is Presnt

Qui, grazie a Dio, non ci capita il frammento con Ulay (che però vi metto sopra). Ci sono le foto a mosaico di alcune delle tantissime persone che nell’arco dei trenta giorni sono andate a sedersi al tavolo di Marina. Le regole erano: stare fermi, non parlare, guardarsi negli occhi fino a che la persona che si era seduta non decideva di andarsene. C’è stato un signore, Paco, che è tornato ventuno volte da Marina. C’era più di una sua foto, ogni volta si pettinava e vestiva con cura , in maniera diversa. Qualcuno ha detto che sembrava un corteggiamento. C’erano persone che piangevano, alcune che si trattenevano dal ridere, alcune con l’espressione neutra. Marina ha fissato lo sguardo di tutti loro, entrando dentro i loro occhi sul mondo per il tempo che a loro serviva.  Eccoci alla fine del nostro percorso, ora tocca a noi. Torniamo nella nostra stanza iniziale, quella in cui abbiamo firmato il contratto. C’è un grande tavolo con degli oggetti magici e noi ci disponiamo in due file da dieci. Ognuno deve avvicinarsi molto lentamente al tavolo e scegliere con cura un oggetto. Quello che avevo puntato, un foglio d’oro tutto stropicciato, lo prende mio figlio che sta in prima fila e mi batte sul tempo. Allora faccio una seconda scelta, un tessuto viola. Deve restare lì per me, però. E così accade, sono l’ultima ad avvicinarsi al tavolo e lo trovo ad aspettarmi.  Veniamo divisi a coppie, capito con mia nipote. Ognuno mette il suo oggetto al centro vicino a quello dell’altro, lei ha una piccola conchiglia. Con delle cuffie per l’isolamento acustico proviamo a guardarci negli occhi, senza muoverci, senza parlare, per il tempo che serve. Gli occhi di mia nipote sono proprio gli stessi di quelli di mio fratello. Mentre la guardo le dico che le voglio bene, che sono fiera di lei, che ce la faremo. E lo dico anche a mio fratello. Lei a volte si fa seria, a volte quasi sorride, è una bambina/ragazza e ha tutto il dentro che si muove.

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Finisce così la nostra bellissima avventura di conoscenza. Salutiamo i compagni di viaggio e le guide. Ci mettiamo in tasca un sacchetto di riso e lenticchie, serve a imparare qualcosa sul nostro tempo, ognuno ne ha uno tutto suo e se si vuole scoprirne qualcosa, basta mettersi a separare i chicchi di riso dalle lenticchie.

Grazie a Palazzo Strozzi per questo racconto a misura di bambino sulle avventure di Marina Abramovič. Grazie a Pitti Bimbo per alcune delle fotografie e per aver offerto questa giornata alle famiglie. Per tutti gli altri percorsi speciali trovate info e date sul sito di Palazzo Strozzi.

Euforia

Euforia

Oggi esce nelle sale il secondo film da regista di Valeria Golino, Euforia. Parla di noi e del nostro fascismo interiore, del nostro conformismo. Parla della ricerca della libertà, prima ancora che della (possibile?) felicità. Siamo al preciso punto del fino a qui tutto bene. Ci sono due fratelli Matteo (Riccardo Scamarcio) ed Ettore (Valerio Mastandrea). Matteo vive nell’apparente soddisfazione di una vita libera, leggera, senza tabù di sorta. Sembrerebbe felice. E invece dentro soffre, si sente ridicolo, non meritevole, un fenomeno da baraccone. Si droga per affrontare le giornate fingendo sia per diletto. Ettore è solido, autorevole e burbero il giusto. Quando scopre di essere malato inizia, suo malgrado, un percorso forzato di autenticità che aumenta con l’avvicinarsi della fase terminale. Che Matteo vorrebbe censurare. E intorno la famiglia, gli amici, una ex moglie (Isabella Ferrari) e un nuovo e vero amore (Jasmine Trinca) che si alternano ad un ritmo dolce e impetuoso terribilmente simile alla realtà. La vitalità del film è altissima, è un film che parla con forza dell’ esistenza, dei confini a cui siamo capaci di relegarla e di come lei riesce a sfuggirci di mano, per fortuna, sempre. Per portarci laddove dobbiamo evolvere. E se abbiamo la Grazia, riusciamo a cogliere la bellezza e la spietata perfezione di questo gioco sacro, come accade, magnificamente, nel finale.  E’ un film molto intimo e personale ma allo stesso tempo racconta qualcosa della nostra epoca, del nostro paese e della nostra economia, anche. Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio. E’ ampio lo sguardo della Golino e minuzioso e pieno di amore per il cinema. Cast spettacolare magistralmente diretto. Film italiano dell’anno.

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Figlia Mia

Figlia Mia

Vittoria (Sara Casu) ha dieci anni e nell’estate in cui si trasforma da bambina a ragazza scopre la sua storia antica, quella da cui vengono i capelli rossi e le lentiggini che vede ogni giorno riflesse nello specchio ma non addosso ai suoi genitori. Angelica (Alba Rohhwacher) è la matta, ubriacona e prostituta del villaggio, di giorno sta in mutande e beve birra e di sera si veste a festa e va nel bar dove si ritrovano gli uomini, a cercare l’amore e qualcuno che le paghi da bere. A breve rischia di perdere la casa per un debito di euro ventotto mila e rotti che non ha e non sa dove andare a prendere. Tina (Valeria Golino) lavora con il marito devoto in una fabbrica di bottarga ed essere madre di Vittoria è quello che desidera dalla vita. Questo desiderio lo coltiva con cura ogni giorno, fino a quando Vittoria e Angelica sfiorandosi, si riconoscono nel loro legame di sangue e l’equilibrio fondato su dieci anni di amorevole omissione salta. Angelica ha partorito Vittoria, Tina l’ha allevata come fosse stata sua. Tina e Angelica abitano a tre chilometri di distanza e le lega un rapporto profondo di solidarietà e accettazione reciproca che la faticosa vicenda conferma e sancisce. “Figlia Mia” il secondo film di Laura Bispuri (il primo è “Vergine giurata” che devo ancora vedere) esce domani nelle sale italiane ed è attualmente in corsa, unico film italiano, per l’Orso al Festival di Berlino. In un’assolata e arcaica Sardegna, tra gente semplice e taciturna, si racconta della maternità, da quella viscerale a quella genitoriale. Nel tempo del film prendono forma le mille sfumature di questa esperienza che include senso di inadeguatezza e missione di perfezione e si va ancora oltre… Oltre gli opposti  natura/cultura dove si riuniscono la mamma biologica e la mamma genitore semmai fossero state veramente divise. Oltre  il giudizio che non  trapela dalla telecamera saggia e sapiente nel racconto dello sguardo della donna- bambina. Una donna – bambina a cui ci si affida per risolvere uno dei conflitti più immani: dimmi ora, Vittoria, chi è quindi tua madre? Vittoria si cala nel buco più profondo della montagna e riesce a riemergere, nascendo di nuovo, da sola, figlia di due madri che non ha bisogno di cambiare. Ecco non la fine ma l’inizio di una nuova storia in cui i personaggi possono esistere solo nella loro reciproca relazione. Nell’inevitabile richiamo all’attualità e al tema della gestazione per altri mi sembra di cogliere uno spunto per pensare alla genitorialità come attitudine sociale e condivisa, senza esclusioni, senza separazioni permanenti e funzionali a creare nuclei chiusi che nella realtà non esistono. Un film da vedere per il suo bellissimo scenario visivo e per la maestosità della recitazione del trio femminile in cui, se volessimo trovare un vertice, direi Valeria Golino per la sottile e costante interpretazione dell’attitudine dell’essere in debito. Particolarmente gustose le soluzioni d’arredo degli ambienti di Ilaria Sadun e una sincera nota di merito a Michele Carboni che interpreta il marito di Tina. Nel cast anche Udo Kier con l’augurio che possa essere un gancio in più per l’Orso. In bocca al lupo.

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Storie della buonanotte per bambine ribelli …. che crescono

Storie della buonanotte per bambine ribelli …. che crescono

“Storie della buona notte per bambine ribelli” festeggia il suo primo anno in Italia con dodici ristampe (Mondadori) e arriva sotto il nostro albero di Natale pronto per essere scartato da Benedetta. Ho letto molti pareri su questo libro, caso editoriale del 2017 già diventato un classico, il mio è: Chapeau! Applausi alla raccolta delle cento favole di vita vera di altrettante donne straordinarie che hanno cambiato le regole del gioco nel mondo e nella storia. Sono leggere e corte abbastanza da essere lette da bambine delle elementari prima di andare a dormire, anche in autonomia. Applausi alle autrici, e innovatrici sociali, Elena Favilli e Francesca Cavallo per la selezione delle biografie e alle illustratici, tutte donne, per i bellissimi ritratti (il mio preferito è quello di Evita Peron disegnato da Cristina Amodeo) dedicati a ogni eroina raccontata. In uscita “Storie della buonanotte per bambine ribelli 2”, non ancora in italiano sembra, che prosegue ed amplifica il progetto editoriale di Elena e Francesca, italiane residenti in California, e della la loro ormai mitica etichetta Timbuktu Labs. Oltre al nuovo libro infatti usciranno dei podcast abbinati ed altri contenuti interattivi, in linea con l’esigenza di portare nuove forme di narrazione dedicate all’infanzia e di creare, anche per il mondo delle aziende, nuova ricerca e nuovi prodotti (qui un bell’articolo che spiega tutte le tappe, dal crowdfunding su Kickstarter in poi). Il tutto, se non si fosse intuito, con un approccio amorevolmente femminista. Applausi!!! Se vi manca un regalo per piccole donne, o per piccoli lettori curiosi che non si fermano al titolo, eccolo qui.FullSizeRender 2

 

 

 

 

 

Berlino in famiglia

Berlino in famiglia

Visitare Berlino con i miei bambini di 4 e 7 anni è stato bello e intenso, tra nuovi ricordi e “revisioni” di quelli del 2008, quando l’ho vista per la prima volta e dappertutto c’erano cantieri e lavori in corso. Adesso la città cambia in modo meno plateale, sembra stia vivendo un assestamento delle forme. Il boom immobiliare continua a galoppare, anche grazie all’immigrazione italiana di intere famiglie (c’è un bel documentario intitolato “Ciao Italia” che parla di questo) ma si è spostato dal centro verso la periferia. Ci hanno raccontato che da un paio d’anni è diventato normale vedere per strada veri e propri “casting”: file di persone in coda che aspettano il loro turno al colloquio per tentare di aggiudicarsi il contratto d’affitto. Senza casting – fortunatamente – ma semplicemente chiedendo agli amici (ormai tutti ne abbiamo che vivono all’estero) abbiamo trovato un appartamento vicino alla stazione della metropolitana Hermanplatz (fermata delle linee U7 e U8) che per sei giorni ci ha fatto perfettamente da base.IMG_7091Indispensabile per viaggiare sui mezzi pubblici e usufruire delle entrate ridotte nei più importanti musei e attrazioni della città è stata la Welcome Card .  Berlino è una città enorme e la sua rete metropolitana e di autobus permette di raggiungere tutte le zone rapidamente e in sicurezza, anche di sera. I biglietti non sono proprio economici e i controlli sono molto frequenti. La Welcome Card, come unico biglietto da obliterare solo la prima volta,  ha validità da 48 ore a 6 giorni in base all’ opzione scelta e consente una tariffa vantaggiosa per viaggi illimitati in tutte e tre le zone del trasporto urbano: A – centro, B – fino ai confini della città (aeroporto Tegel) e C – hinterland (aeroporto Schönefeld). Ogni Welcome Card è valida per un adulto e due bambini ed è acquistabile on-line .IMG_7141Grazie alla piccola cucina attrezzata la mattina prima di uscire preparavamo un’abbondante colazione alla tedesca che funzionava da pasto principale e poi facevamo dei break nelle panetterie dove si trovano mille tipi diversi di pane e le torte tradizionali a prezzi ottimi. In particolare da Thoben, una catena con negozi in vari punti della città, le fette di torta vanno dai 0,69 ai 90 centesimi cad. Sconsigliati  (almeno in inverno) i panini imbottiti perché dappertutto vengono serviti esclusivamente freddi, secondo la normativa vigente (“solo in Italia scaldate i panini” ci hanno risposto da dietro il bancone, con una punta di disapprovazione). Ottimo il cibo tipico cucinato al momento, soprattutto fritto, delle bancarelle dei Mercatini di Natale sparse in tutta la città: prezzi medi di 4/5 euro per razione abbondante.  La nostra spesa alimentare si è quindi suddivisa tra questi assaggi “di strada” e il piccolo supermarket Edeka vicino casa. Rientrando a fine giornata cucinavamo ancora qualcosa di veloce, fermarsi fuori a cena era impensabile per il freddo, perché i bambini avevano bisogno di rilassarsi e perché sarebbe diventato un costo eccessivo. L’unica sobria eccezione è stato un buon brunch all’ Hard Rock Cafè in compagnia di Babbo Natale per la gioia dei bambini e con l’esibizione live del cantante jazz Dwight Thompson per il grande piacere degli adulti.IMG_7330Siamo arrivati con delle attività già programmate per il primo giorno, con l’idea di osservare i bambini e capire se nei giorni successivi avremmo potuto alternare luoghi a loro dedicati con cose un po’ più per noi, tipo la visita al Pergamonmuseum, uno dei musei archeologici più importanti del mondo che nei giorni del nostro viaggio del 2008 avevamo trovato chiuso per restauro. E’ stato subito chiaro che se per Benedetta, la maggiore, era tutto entusiasmante, compresi i viaggi sui mezzi, le lunghe camminate con il freddo e il cambiare ambiente più volte nell’arco della giornata, per Federico non era altrettanto facile. Faceva fatica a camminare e soprattutto nei primi giorni era infastidito dagli spostamenti necessariamente veloci della metropolitana. Una volta arrivati a destinazione la curiosità e l’osservazione si accendevano anche in lui ma era appunto l’attività a misura di bambino che lo rendeva disponibile ad aprisi e quindi niente Porta di Ishtar, nemmeno questa volta. I Giardini di Natale sono stati la  nostra prima tappa. Questo festival della contemplazione si trova all’interno dei Giardini Botanici che per l’occasione vengono ricoperti di luce dal grande light designer Andreas Boehlke e diventano uno spettacolo in cui natura e magia celebrano l’attesa del Natale. Sono immensi e le installazioni luminose disegnano un percorso ricchissimo che dura circa due ore. All’interno si trovano bancarelle di cibo e vin brûlé e tutto l’itinerario è perfettamente percorribile anche con i passeggini o le carrozzine.  I Giardini di Natale sono un evento relativamente nuovo per Berlino, questa è la seconda edizione ma penso diventeranno un classico, come suggeriscono anche i risultati della stagione 2016: 120000 biglietti venduti e uno dei parchi più importanti della città riportato in vita, nonostante il fermo vegetativo. “Grazie per avermi portato qui” mi ha detto Benedetta mentre camminavamo verso l’uscita. IMG_7235Subito dopo, io e lei soltanto, siamo andate  – vestite uguali –  a teatro. Abbiamo indossato durante tutto il viaggio la linea bio ed ecosostenibile per “mamma e figlia” di Corahappywear e questa per Benny è stata la ciliegina sulla torta essendo lei nella dolcissima fase in cui prima viene la mamma e poi Elsa, la Principessa Leila e Wonder Women. Si è veramente creata una complicità particolare  e i vestiti sono caldi e adatti ai diversi momenti della giornata, per cui chicca consigliatissima per rendere ancora più  speciale un bel momento. IMG_7253Al Friedrichstadt-Palast, sul palcoscenico più grande del mondo (2.854 metri quadrati) abbiamo visto The One Grand Show, uno spettacolo di varietà, in teoria adatto a bambini dai dieci anni in su. La magnificenza della messa in scena, tra acrobati di altissimo livello, giochi di fuoco e di acqua, costumi incredibili (cinquecento pezzi disegnati da Jean Paul Gautier), cento artisti a rotazione e tutto quello che è possibile immaginare in una produzione dal budget che sfiora gli undici milioni di euro potrebbero essere secondo me degli ottimi motivi per abbassare la soglia dell’età indicata ai sei anni, sebbene forse alcune coreografie possano risultare leggermente spinte ma – paradossalmente – solo ad un pubblico adulto. Un bambino non percepisce la trasgressione nel movimento del corpo ma semplicemente gioisce del movimento stesso. La storia racconta i sogni e ricordi di un’epoca finita, legata a quello che una volta era un teatro magnifico, pieno di fasto. Un personaggio ricorda in parallelo la sua storia personale e tutta l’attesa che ancora vive per l’unico e grande amore, sfiorato più volte e mai raggiunto. La bellezza e la grandiosità di questo show sono uno spettacolo per gli occhi e per il cuore, soprattutto per i più piccoli, da quello che è stata la nostra esperienza, quindi in caso visitiate la città a breve è molto consigliato.The-One-Grand-Show_web_v5Un’altra possibilità per rimanere stupiti e un luogo unico al mondo da vedere insieme ai bambini è il MachMit a Pranzlaurberg, il più popoloso quartiere d’Europa. Questo “Museo per bambini” dai 4 ai 12 anni, compie quest’anno 25 anni e continua ad essere uno dei posti dedicati all’infanzia più all’avanguardia. Si tratta di una chiesa sconsacrata rimasta intatta all’esterno e completamente riprogettata all’interno. Al primo piano i pavimenti in resina sono in pendenza per correre e scivolare meglio, c’è una barca in legno al centro della pianta e su uno dei lati un laboratorio artigianale a vista, in cui di volta in volta lo staff prepara dei pezzi nuovi da inserire nel circuito mostra. Si arriva al secondo piano con dei gradoni in legno che ricordano il teatro greco e davanti a questi c’è un telo per le proiezioni. Al secondo piano, in quella che era la navata centrale, c’è un labirinto verticale sospeso in legno in cui i bambini esplorano uno spazio inedito a loro dedicato. Ai lati di questa struttura ci sono una serie di postazioni a isola, sempre in legno, in cui si svolgono diversi laboratori con grande abbondanza di materiale per  bambini e per adulti. Il costo d’entrata si può dire simbolico (5 euro cad.) se confrontato con l’ esperienza: i bambini hanno interagito con l’ambiente e tra di loro un intero pomeriggio. In questo museo si sta senza scarpe e ci sono grandi divani per il riposo dei genitori. All’interno del percorso mostra, noi abbiamo visto quella sui Nativi Americani ma ce ne sono molte e diverse durante l’anno, si trovano degli addetti che propongono dei piccoli “racconti manuali”, cioè parlano del tema della mostra mentre fanno qualcosa di inerente e semplice con i bambini che si avvicinano.  E’ un posto essenziale e senza fronzoli in cui si percepisce un forte senso di collettività e un livello alto di cura sociale verso le nuove generazioni. IMG_7589IMG_7595IMG_1445IMG_7601Imperdibili da visitare con i bambini sono anche i Mercatini di Natale: siamo stati un pomeriggio intero in quello di Alexander Platz, con tanto di giro sulla ruota panoramica e vin brûlé (i bambini no) a bordo della pista di pattinaggio sul ghiaccio. IMG_7361Più di sfuggita abbiamo visto quello di Kaiser-Wilhelm-Gedächtniskirche, la Chiesa della Memoria, da cui l’angelo Demiel nel film “Il cielo sopra Berlino” osserva i berlinesi. Volevamo salire anche noi sulla torre ma si può solo fino a Ottobre, in compenso guarderemo tutti insieme il film durante le vacanze di Natale. Altre due attrazioni specifiche per i bambini che abbiamo visitato sono il Lego Discovery Center e il Sea-Life. Il Lego Discovery Center è in Potsdammer Platz, proprio di fianco al Museo del Cinema. E sarà perché magari avrei preferito appunto il Museo del Cinema, oppure perché il biglietto d’entrata per quattro non è propriamente economico, oppure perché si trova in due piani seminterrati ed è relativamente piccolo, non so se può rientrare a pieno titolo nei luoghi da visitare con bambini a Berlino. Ci sono certo tutta una serie di postazioni in cui i bambini possono giocare coi Lego, c’è una giostra (anzi due, ma l’esplorazione dei dinosauri era fuori uso) e tantissimi personaggi costruiti a grandezza uomo (con Benedetta abbiamo partecipato al workshop per costruire un mega Darth Vader) ma il luogo e l’esperienza rimangono in un certo senso anonime, perché sono slegate dal contesto urbano ma nemmeno così eccezionali da riuscire a crearne uno loro.  Aqua Dome & Sea Life è invece l’acquario di Berlino e, sebbene non possa essere confrontato al nostro di Genova, ha una torre d’acqua di 25 metri che si percorre dall’interno sostando in una capsula ascensore che giustifica la visita e regala un’esperienza particolare ai bambini. Gratuita e magnifica la visita all’interno della cupola del palazzo del Reichstag, sede del Parlamento. Bisogna prenotarsi on line, con almeno due ore d’anticipo richieste (ma realisticamente servono tre giorni per trovare una fascia oraria libera) e portare i documenti per le verifiche all’ ingresso.IMG_7889Tutto il resto della città lo abbiamo visto per strada ed è forse la parte del viaggio meno descrivibile. La neve in Potsdammer Platz, la Porta di Brandeburgo, la Torre della Televisione, il Mitte, i quartieri residenziali e quelli semiperiferici, le decorazioni natalizie che si accendevano nel buio, le librerie e i Café del nostro quartiere sono la “nostra parte” di visione, di noi “grandi”. Per Benedetta, a sorpresa, il ricordo più fervido è la classicissima Porta di Brandeburgo. Per Federico Aqua Dome e la Cupola del Bundestag, “da qui lanciano i razzi, mamma?” FullSizeRenderBerlino è un viaggio di famiglia per spostarsi nel mitico “nord”, dove tutto funziona e migliora costantemente, restando vicini a casa e trovando un contesto dai servizi molto ben organizzati e fruibili da genitori con anche più di due figli. Il costo della vita mi è sembrato assimilabile al nostro, a volte, al supermercato per esempio, inferiore. I bambini sotto i sei anni fanno quasi tutto gratuitamente, motivo per cui è una meta adatta anche a viaggi con i piccolissimi, magari preferendo la primavera e l’ estate. Per i genitori resta, come per tutti, una delle più affascinanti città europee, vissuta con qualche gioiosa fatica in più.

Altre foto del viaggio sul mio profilo Instagram.

 

 

LUIGO DA DENTRO

LUIGO DA DENTRO

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Luigo era un ragazzo benestante prima che dilapidasse completamente il suo patrimonio, ereditato alla morte dei genitori, per finanziare i suoi show personali e mettere in scena le sue diverse identità. Semplicemente ha speso tutto per pagare una serie di personaggi, a vederli anche “ persone normali”, che in cambio di un po’ di contanti gli facevano fare una parte nel loro pezzo di mondo. Un assistente universitario arrotondava la borsa di ricerca facendogli tenere qualche lezione come professore ospite davanti ai suoi studenti. Un sacerdote gli faceva dire messa ogni tanto (solo le infrasettimanali), in cambio di qualche generosa offerta per restaurare il crocefisso d’epoca. E tanti altri ruoli giù in città, con una discreta rete di collaboratori pronti a partecipare a queste sceneggiate private. Ne’ per truffa ne’ per eversione, semplicemente un modo per racimolare qualche soldo in più per i collaboratori e un esercizio di stile per Luigo e i suoi occhi che desideravano una visuale più ampia della vita. Poi i soldi finiscono, arrivano “LaSbanca” e “InEquitalia” e inizia il film. 
I film di Stefano Usardi, amico e collega Dams Cinema a Bologna, immatricolazione anno 2000, sono tre finora. Gli altri due sono “27”  del 2011 e  “Il mio giorno” del 2013  – ultima interpretazione di Sergio Fiorentini –  e in tutti il filo rosso è il tema della percezione, ambito a cui Stefano ha dedicato anche il suo dottorato di ricerca in Spagna. Per “27” ho collaborato ai dialoghi della sceneggiatura,  per “Il mio giorno” ho, in maniera del tutto casuale, organizzato una proiezione a Saronno che si è poi rivelata tra le più partecipate dell’arena estiva 2015. E per LUIGO mi sono occupata dell’organizzazione generale del film, motivo per cui questo non è un pezzo di critica cinematografica ma più una riflessione personale, dopo un lavoro che a ritmi alterni è durato quasi due anni e  prima dell’imminente prima uscita nazionale al Kinodromo lunedì prossimo, e del tour del film in varie città (qui gli aggiornamenti su luoghi e date).
LUIGO, se pure con le difficoltà tipiche del cinema indipendente italiano, è stata un’esperienza – manifesto di una linea produttiva ideale. Siamo riusciti a lavorare con un budget relativamente piccolo ma completamente nostro, senza contributi statali, il che ha reso i tempi di lavorazione umani e la dispersione di energia dedicata alla burocrazia minima, rispetto al solito. Questo per scelta della FiFilm Production di Caterina Francavilla che, l’8 Dicembre 2015, ha deciso di produrre in questi termini LUIGO dopo aver visto a Feltre “Il mio giorno” e dopo aver letto la sceneggiatura. Ho preparato il film da casa mentre i bambini erano all’asilo, con Caterina ad Agordo, Stefano in collegamento diretto un po’ da Belluno e un po’ da Bologna per i primi sopralluoghi e Paolo Ravanini, assistente di Stefano, in collegamento da Verona. 
Prima dell’inizio del set ci siamo visti di persona una sola volta, c’era anche Giampiero Sanzari, (musiche) e Luca Orlandi (d.o.p) per un paio di giorni ad Agordo, immersi nella neve.
A Marzo 2016 si è formata la troupe, quasi completamente bolognese e poi a Giugno sono iniziate le riprese, cinque settimane dense che ho potuto seguire a distanza grazie alla collaborazione preziosa di Chiara Trerè, super ispettrice di produzione su un set in cui tutti hanno dato il massimo.
A Febbraio 2017 dopo montaggio e post produzione il film era pronto e abbiamo iniziato le iscrizioni ai festival più grossi, mirando – soprattutto io, a dire il vero – a Venezia. 
Quando a Luglio ci hanno scritto per dirci che il film era interessante ma non ci prendevano, ci ho provato a pensarlo che non me ne fregava niente di quella congrega di vecchi parrucconi ma ha funzionato poco perché per un bel po’ ci sono rimasta male lo stesso. Stefano diceva che lo sapeva. Caterina non diceva niente. E da Settembre stiamo iscrivendo il film ai festival più “piccoli”, come forse avremmo potuto fare già da prima se non avessi accarezzato il sogno segreto di andare in gondola con Ai Weiwei. La distribuzione è stata un’altra fase spinosa. E’ stato in generale più facile coinvolgere aziende in sponsor o in partnership che approdare ad una distribuzione classica. Abbiamo risolto organizzando un tour del film direttamente con gli esercenti e stiamo a vedere cosa succederà. 
La cosa bella di Luigo è che fa ridere oppure arrabbiare.
Un racconto allegro e dissacrante delle nostre grandi sfide quotidiane: identità, debito, lavoro, relazioni e fantasiose quanto rocambolesche ricerche di vie di fuga dal sistema di controllo. 
Luigo visto da dentro, Luigo visto da fuori. Prossimi esercizi di stile in arrivo.
Copia di DSC_9035m2In apertura Stefano Usardi sul set “Casa Luigo” con Giovanni Morassutti che interpreta Zeno, il fratello invasato di yoga di Luigo.  Qui sopra Luigo (Angelo Colombo) che apre la porta di casa all’ispettore di InIquitalia (Giuseppe Antignati).
Le foto sono di Benedetta Manzi.
Inquinamento e bambini

Inquinamento e bambini

asma

Il dottor Giacomo Toffol è medico chirurgo specializzato in pediatria e referente per l’ambiente dell’Associazione Culturale Pediatri, l’unica in Italia che si auto impone, per regolamento interno, di non intrattenere rapporti con qualsivoglia azienda a scopo di lucro. Oltre a svolgere la professione di pediatra è attivo nella divulgazione delle tematiche relative all’inquinamento e su questo argomento ha risposto a qualche domanda dedicata in particolare ai bambini e a cosa fare in concreto per una loro maggiore tutela.

M.P: Il libro “Inquinamento e salute del bambino: cosa c’è da sapere, cosa c’è da fare” che ha scritto con la dottoressa Laura Todesco e con la dottoressa Laura Reali (seconda ristampa) lo avete scritto per divulgare la tematica tra colleghi e genitori. Tra i diversi tipi di inquinamento quale le sembra ad ora il meno conosciuto e il più sottovalutato?

Giacomo Toffol: Se tutti riconosciamo nell’inquinamento atmosferico Il rischio più importante per la salute, è invece del tutto sottovalutato il peso che l’ inquinamento acustico ha sulla salute nostra e su quella dei bambini. Secondo l’O.M.S l’impatto dell’inquinamento acustico è secondo solo a quello dell’inquinamento atmosferico e può determinare nei bambini una diminuzione dell’udito – che spesso rimane inosservata fino all’adolescenza e oltre – una diminuzione delle capacità cognitive e, in caso di esposizione del bambino a inquinamento acustico durante le ore notturne, un aumento della pressione arteriosa. Per moltissimi anni l’aumento della pressione arteriosa è stato un escamotage del nostro corpo per farci reagire a situazioni di immediato pericolo, il leone che voleva azzannarci per esempio. Ora che le eventualità legate agli animali predatori sono drasticamente diminuite resta lo stesso tipo di meccanismo che però ci si ritorce contro producendo stress. Un bambino esposto sistematicamente a rumori durante la notte ha un aumento della pressione arteriosa nel sonno che potrà portarlo ad avere in futuro dei problemi all’apparato cardiocircolatorio.
Altro ambito molto trascurato è quello dei POP (Persistant Organic Pollutants, inquinanti organici persistenti) meglio conosciuti come “la sporca dozzina” e degli altri interferenti endocrini. I pop sono sostanze chimiche industriali – Pcb, Ddt, diossine (dibenzo-p-diossine), clordano, furani (dibenzo-p-furani), esaclorobenzene, aldrin, mirex, dieldrin, toxafene, endrin, eptaclor – di cui ora è vietata la commercializzazione ma che vengono comunque prodotte come sostanze di scarto nelle lavorazioni industriali e quindi immesse nell’ambiente per poi arrivare fino a noi. Inoltre esistono altri interferenti endocrini – e cioè sostanze che hanno la capacità di danneggiare il funzionamento del nostro sistema endocrino, creando per esempio problemi di sviluppo puberale, criptorchidismo, problemi tiroidei, oltre che patologie di natura cancerogena – che ad ora non sono nemmeno vietati.
In Veneto, nella zona tra Padova, Vicenza e Verona è in corso una vicenda disastrosa di cui poco si parla a livello nazionale ma che rende bene l’idea di quanto sia attuale e concreto il tema, e non solo nella Terra dei Fuochi. Nelle acque potabili è stata riscontrata la presenza di Pfas, sostanze perfluoroalchiliche riconosciute come interferenti endocrini correlati a patologie riguardanti pelle, polmoni e reni. Sono state fatte analisi del sangue di monitoraggio alla popolazione e abbiamo bambini e adolescenti con valori PFAS “sopra la media”, 20/30 volte la soglia ritenuta idonea (n.d.r vedi video di richiesta aiuto mamme della pfas). In questa situazione di panico generalizzato è stato valutato come possibile opzione per i bambini anche un trattamento di plasmaferesi (pulizia del sangue). L’azienda a cui si attribuisce la responsabilità trentennale dello sversamento nelle acque fluviali di queste sostanze è l’industria chimica Miteni di Trissino a cui però è difficile contestare il danno perché in Italia non esiste un limite di legge dei Pfas che possono essere presenti nelle acque delle rete idrica.
Altro esempio, più positivo, sul tema degli interferenti endocrini è lo studio PERSUADED   finanziato dalla Comunità Europea nell’ambito del progetto LIFE+ e condotto dall’ Istituto Superiore di Sanità di Roma a cui prendo parte insieme all’Associazione Culturale Pediatri. Lo studio, insieme a un monitoraggio generale degli effetti di Ftalati ed il bisfenolo A (BPA) – sostanze ampiamente utilizzate nelle confezioni alimentari come plastificanti – ha anche il fine di individuare e proporre una soglia massima di legge di queste sostanze.
In ultimo anche il cambiamento climatico, di cui molto si parla ma nulla di concreto si sta facendo per arginarne gli effetti, è molto sottovalutato. In meno di trent’anni renderà invivibile gran parte del nostro pianeta incidendo direttamente sulla vita dei bambini di oggi.

M.P: Quali possono essere gli effetti dell’esposizione all’inquinamento nei bambini a lungo termine? Quali sono finora gli studi secondo lei più significativi condotti sull’argomento?

G.T: L’inquinamento atmosferico è cancerogeno. Lo IARC ( Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro) ha classificato come cancerogeno in classe 1 il benzene, il particolato , il benzopirene e gli scarichi dei motori diesel. L’ esposizione cronica all’inquinamento atmosferico è una delle cause di aumento dell’incidenza di tumori e di patologie cardiocircolatorie (infarti e ictus) nella popolazione.
E’ stato dimostrato dagli studi che gli interferenti endocrini determinano un’alterazione dello sviluppo neurologico nei bambini legato a una esposizione delle mamma in gravidanza. L’incidenza di problematiche neurologiche nei bambini è maggiore rispetto al passato. Nel caso dell’autismo per esempio, erroneamente si pensa che i vaccini siano responsabili ma invece si trascura del tutto la correlazione con l’ inquinamento che è reale e concreta.
Ormai ci sono così tanti studi sugli effetti dell’inquinamento che i risultati più interessanti non sono dati da studi singoli ma da metanalisi, ovvero studi cha raggruppano insieme diverse ricerche . Eccone alcuni di particolarmente interessanti: lo studio  Epiair sugli effetti acuti dell’inquinamento atmosferico, lo studio europeo ESCAPE sugli effetti a lungo termine dell’inquinamento atmosferico che evidenzia un aumento di mortalità generalizzato  e correlazioni con i decessi per patologie cancerogene e cardiovascolari, lo studio positivo Gauderman, Urman, Avol e colleghi che dimostra come una migliore qualità dell’aria influisce positivamente sulla salute dei bambini, lo studio Mnif, Hassine, Bouaziz e colleghi, una interessante metanalisi sull’effetto dei pesticidi come interferenti endocrini a cui si unisce lo studio Vinson, Merhi, Baldi e colleghi   che evidenzia una correlazione tra pesticidi e neoplasie infantili, inoltre l’ ESCALE STUDY  sugli effetti degli inquinanti domestici.

M.P: Si può dire che nel breve termine è l’inquinamento ambientale dato dalle emissioni nelle grandi città quello che incide maggiormente sulla salute dei bambini, dando luogo a continue problematiche alle vie respiratorie superiori?

G.T: Si

M.P: Esistono delle strategie per gestire questo aspetto nelle grandi città? In altre zone del mondo (in Giappone per esempio) si indossa quotidianamente la mascherina, può essere utile?

G.T: La semplice mascherina di plastica non serve a niente perché non aderisce perfettamente alla pelle e quindi l’aria inquinata penetra e va in respirazione. La maschera antigas è il dispositivo che realmente funziona ma non è pensabile un utilizzo quotidiano. Gli altri modelli di mezzo tra questi due estremi sembrerebbero validi ma non ho notizie precise in merito e non le ho testate. Sarebbero da provare.

M.P: Uscire dal contesto urbano almeno un giorno alla settimana andando per esempio in un bosco potrebbe essere utile?

G:T: Certamente, avremmo un beneficio dato dalla minore esposizione se almeno un giorno alla settimana ci spostassimo in una zona meno inquinata.

M.P: Secondo lei è il caso di ripensare ai criteri di preferenza per le mete di vacanza tornando magari anche a scegliere semplicemente la campagna?

G.T: Certo, potrebbe essere un’obiettivo ripensare alle vacanze considerando anche il fattore inquinamento. Magari spostarsi in una zona vicina e meno inquinata ci permetterebbe a nostra volta di produrre meno inquinamento e sarebbe un inizio di quel cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno.

M.P: Cos’altro si potrebbe fare?

G.T: Bisognerebbe provare ad apportare dei cambiamenti concreti anche all’interno dei territori in cui viviamo. Sarebbe importante portare le amministrazioni comunali di tutta Italia per esempio a ripensare il traffico urbano almeno su due punti: niente macchine vicino alle scuole ma invece aree pedonali. E’ fondamentale limitare le emissioni laddove i bambini stanno otto ore al giorno. E limite di 30 km/h nei centri abitati e in prossimità delle scuole: una macchina che va a minore velocità produce meno inquinamento e a noi non costa niente, se non qualche minuto in più che tutto sommato rimane uno scambio vantaggioso.

M.P: Al contrario nei giorni lavorativi ha senso non far uscire i bambini in determinate fasce orarie per evitare loro l’esposizione agli inquinanti?

Le nostre case sono più inquinate dell’esterno non possiamo salvarci chiudendo la porta e non possiamo non uscire perché c’è l’inquinamento. I bambini devono uscire lo stesso magari valutando le fasce orarie. So che Arpa Emilia Romagna, ma anche molte altre agenzie regionali, offrono on line un servizio di monitoraggio che segnala i livelli di inquinamento delle diverse fasce orarie. Nel nostro libro vengono citati degli esempi inglesi di app che calcolano i percorsi con meno inquinamento per andare a piedi da un posto all’altro. (walkit.com)

M.P: Ci sono delle piante da tenere in casa che realmente aiutino a migliorare la qualità dell’aria?

G.T: A me non risulta.

M.P: Oltre al frequente lavaggio delle mani e ai lavaggi nasali c’è altro che i genitori possono fare per limitare gli stati di infiammazione e catarro che nelle grandi città diventano per molti bambini una condizione permanente in inverno e in autunno?

G.T: No al fumo di sigaretta: ancora tanti genitori fumano sul terrazzino di casa… Ma il fumo rimane attaccato alla pelle e ai capelli e poi entra in contatto con i bambini.
Inoltre cerchiamo di non riscaldare troppo le nostre abitazioni e arieggiamo sempre, anche in inverno, perché è dentro casa che si concentra di più l’inquinamento.

M.P: Lei parla molto dell’inquinamento dato dai pesticidi e consiglia un’alimentazione biologica. Da una parte in Italia il livello di consapevolezza aumenta: comitati mense nelle scuole, gruppi solidali d’acquisto, nuove pratiche anche domestiche di agricoltura e autoproduzione ma purtroppo, come fa notare, l’inquinamento delle falde acquifere ci riguarda tutti indistintamente. A fronte di questo, sono molti i genitori che rinunciano all’alimentazione bio (che è anche circa il doppio più onerosa) perché non trovano il senso di applicare una soluzione parziale che non risolve il problema. Secondo lei quale può essere un orientamento sensato?

G.T: Le falde acquifere inquinate di solito non sono quelle degli acquedotti che fortunatamente si trovano più in profondità e quindi riescono a preservarsi maggiormente.
Comunque se io ho due fonti di inquinamento e ne tolgo almeno una sarà sempre una situazione migliore di subirle entrambi. Il cibo biologico va preferito in ogni caso, almeno la frutta che è quella che mangiamo cruda. L’Istat dice che in Italia le famiglie investono poco nella spesa alimentare : in media circa 450 euro al mese. Perché c’è l’idea errata che è meglio risparmiare sul cibo che sul nuovo aggeggio tecnologico… Bisogna ripensare alla spesa alimentare attribuendole il massimo grado d’importanza.

M.P: Allo stesso modo per quello che riguarda l’inquinamento elettromagnetico dovuto alle reti di dati c’è chi dice che non serve a niente spegnere il wi-fi la notte e tenere fuori dalla portata i cellulari, perché – soprattutto nelle aree urbane altamente industrializzate – viviamo praticamente immersi in un gigante campo elettromagnetico che non smette di agire purtroppo solo perché viene spento il wi.fi di un singolo appartamento. Cosa ne pensa?

G.T: Stesso discorso di prima: la minore esposizione da luogo a minori effetti dannosi. Se non possiamo spegnerlo, almeno teniamo lontano il cellulare e non sul comodino.
Il wi – fi fa male davvero. Lo sa che per uno studio hanno messo campioni di colture cellulari in alcune biblioteche, alcune con wi-fi e alcune senza? Si è visto che il campo magnetico favorisce le mutazioni cellulari maligne. Bisogna ripensare alle nostre necessità reali. E’ veramente imprescindibile il wi-fi acceso sempre? Io per esempio inserisco il cavo nel computer quando lavoro da casa e questo è sufficiente

M.P: Oppure si potrebbe iniziare ad inserire nei regolamenti condominiali lo spegnimento del wi-fi nelle ore notturne…

G.T: Questa è una buona idea ma mi fa capire che lei non ha ancora figli adolescenti…

M.P: In effetti non ancora… E’ vero che le lampade al sale rosa dell’Himalaya purificano gli ambienti dai campi elettromagnetici?

G.T: (ride) Non ho mai approfondito le proprietà del sale rosa dell’Himalaya ma questa mi sa tanto di bufala… Al massimo potranno assorbire le radiazioni elettromagnetiche diventando però di conseguenza loro stesse un polo di emissione.

M.P: Rispetto all’inquinamento dovuto ai prodotti per la pulizia della casa quali prodotti sarebbe opportuno scegliere?

G.T: Tutti i prodotti in commercio per la detersione della casa possono emanare composti organici nocivi come la formaldeide o altri interferenti endocrini. Vengono emanati dal barattolo anche quando questo è chiuso e sigillato, penetrando la plastica come si può intuire dall’odore degli scaffali nei supermercati. E noi li inaliamo. Quindi meno barattoli abbiamo in casa e meglio è, tenendo conto che nonostante il marketing suggerisca l’esatto opposto, può bastare un solo prodotto multiuso per tutte le superfici e l’ideale sarebbe conservarlo fuori dall’ambiente di casa, per esempio in terrazzo. E’ poi anche possibile pulire con aceto, bicarbonato, soda… Ci vuole magari più tempo e più fatica ma è anche questa un’opzione. Inoltre un consiglio per lavatrice e lavastoviglie: non atteniamoci strettamente alle dosi indicate sul prodotto detergente: a volte per ottenere piatti e panni puliti basta metà della dose consigliata… è chiaro che è nell’interesse del produttore del detersivo che noi ne consumiamo una quantità maggiore.

M.P: Sul sito Uppa ha dedicato un approfondimento ai tessuti e alle sostanze nocive che possono contenere. Proprio in relazione alla tutela della salute dei bambini ha consigliato l’utilizzo di tessuti certificati Oekotex. Se la sente di dare una soglia minima per questa indicazione, sia sugli anni che sugli indumenti?

I tessuti possono contenere sostanze nocive, spessissimo gli pfas di cui sopra, interferenti endocrini che sono molto dannosi per tutti i bambini ma soprattutto per i più piccoli… Per questo è consigliato ai genitori l’acquisto di indumenti con certificazione Oekotex che esclude la presenza di sostanze nocive nei tessuti…. Cosa le posso dire di più? Certamente se fosse possibile consiglierei ai genitori di acquistare non solo indumenti ma ogni tipo di tessuto che entra in contatto con il bambini con certificazione Oekotex almeno fino al compimento del secondo anno di età. In questo periodo i bambini hanno un’esposizione altissima agli inquinanti perché i loro sistemi enzimatici non funzionano al 100% e perché il rapporto tra il peso e il tessuto epidermico è ridottissimo… Di conseguenza i bambini – che non solo indossano, ma tante volte succhiano e smangiucchiano i tessuti – sono veramente esposti e vanno protetti. Poi è naturale che anche al di sopra dei due anni se fosse possibile consiglierei per i bambini gli indumenti Oekotex… Se però vogliamo trovare un’indicazione un po’ più sostenibile a livello economico allora direi almeno l’intimo e il pigiama. E comunque anche noi adulti dovremmo preferire le fibre tessili naturali…. Certo il Goretex è magnifico, ha delle prestazioni eccellenti… Ma contiene delle sostanze nocive che lo rendono potenzialmente cancerogeno.

E per quale motivo è liberamente in commercio?

Per lo stesso motivo per cui abbiamo gli pfas nell’acqua potabile o per cui è ancora legale il glifosato già catalogato come nocivo dallo IARC: mancano studi sulle soglie massime. E’ una questione difficilissima da affrontare, sono molti i fattori in ballo, non ultimo quello economico. E’ per questo che una maggiore consapevolezza sul tema inquinamento è fortemente necessaria.

La cena di Toni

La cena di Toni

 Io e Toni iprendendo Toni edit
La cena di Toni è l’ultimo film di Elisabetta Pandimiglio e parla di resilienza. 
Toni è un giornalista affermato, un uomo colto, attivo e curioso che a un certo punto del sua vita, più o meno a metà, si ammala di sclerosi multipla. La malattia cambia radicalmente alcuni aspetti della sua vita ma non la sua principale attitudine, quella che è stata per lui anche un mestiere, l’osservazione della realtà e la sua descrizione.
Elisabetta è amica di Toni, come lui è di origini venete e romana d’adozione, e anche lei di mestiere osserva la realtà e la racconta con i suoi film al confine tra i generi: tra documentario e finzione.
La cena di Toni racconta mesi e poi anni in cui Toni, mentre la malattia lentamente avanza, cerca di procurarsi il Sativex, un farmaco a base di cannabinoidi. Il farmaco sarebbe anche legale ma la macchina burocratica italiana, maestosa e multiforme, dall’altro capo del filo telefonico lo rende a lungo irreperibile. La cena alla fine del film è appunto per festeggiare con amici e parenti l’arrivo del Sativex che con sé porta la  promessa di lenire i sintomi della malattia. In mezzo ci sono pezzi della quotidianità di Toni registrati dalle telecamere. C’è la realtà e le esigenze narrative del racconto, così vengono cucite insieme la storia e le immagini: le visite degli amici (tra cui spicca il mitico Osvaldo), la relazione con il domestico, con la fisioterapista, i pomeriggi di compiti con piccoli amici. Frammenti che ricomposti in montaggio, secondo un’estetica e forse anche un’etica della vita che Toni, Elisabetta e tutto un certo ambiente della cultura italiana condividono, raccontano la malattia, la crisi e in fondo anche il fascino sottile di essere costretti a cambiare. C’è l’ossessione tutta italiana – che la crisi ha esasperato – per il cibo. C’è Papa Francesco, i soldi che mancano, i telegiornali, i gatti, gli immigrati. Forse, di striscio, anche la questione sulla libertà di cura. Tutto è collegato al racconto puntuale della vita interiore di Toni, una voce fuori campo che tesse la nostra visione della sua realtà. Quel quadro, la smorfia del gatto, la porta smontata, gli occhi di Giosuè, il cappello di Osvaldo. Chi li sta guardando? Noi, Toni o Elisabetta? Il film, grazie ad una regia profondamente femminile di accoglienza – e non controllo- della storia,  crea una densa sovrapposizione di questi livelli di narrazione del reale in cui i confini vengono meno, il sentire diventa condiviso e in un certo senso siamo chiamati ad essere co-autori. E la resilienza aumenta quando questo si verifica, come lo stesso Toni spiega bene.
Maternità precaria e/o possibile? Il convegno

Maternità precaria e/o possibile? Il convegno

Dal 15 al 17 Aprile sarò  a Roma, al convegno dedicato alla Maternità – precaria e/o possibile?-  della Rete Nazionale delle Donne per la Rivoluzione Gentile a portare racconti di esperienze reali. Numerose, incredibili e quotidiane sono le storie delle donne che ho incontrato in questi cinque anni di approfondimenti su come  è e cosa significa essere e non essere madri nel nostro paese.

La maternità che il femminismo della rivoluzione culturale italiana non ha saputo e/o potuto affrontare è il nuovo confine personale e sociale dell’emancipazione femminile di tutte.

Studio, lavoro, crescita professionale e poi con la gioia delle prima gravidanza arriva anche lo stop inaspettato alla carriera, questa è solo una  delle varianti più comuni dello stigma della generatività che ci riguarda tutte, ed è l’esperienza che ho vissuto in prima persona, sentendomi catapultata in un’altra epoca. Ecco perché a distanza di anni –  tra tutte – è la vicenda di AnnaChiara che si laurea a pieni voti, fa le sue specializzazioni a Lipsia e Londra, rientra in Italia e vince un concorso statale per lavorare nei beni culturali, posto che deve poi lasciare a causa   di una gravidanza a rischio NON prevista dal contratto ministeriale Mibact (qui si apre una grossa parentesi sulla legittimità di un contratto così controverso, rimando a questo articolo  e ai correlati per un approfondimento) quella che mi ha fatto più riflettere e la prima che condividerò con chi ascolta .

“Tutto ha funzionato fino a che sono stata fisiologicamente simile a un uomo. Appena il mio corpo è cambiato per la  gravidanza e ho dovuto affrontare i limiti fisici di una situazione a rischio si è aperto un grande divario”.

AnnaChiara è in attesa (da Novembre 2015) di sapere se potrà essere reinserita e corre forse il rischio di dover restituire dei soldi al ministero per aver sforato il limite di malattia “concessa”… Poi c’è Silvia che si è licenziata per tentare di restare incinta e ora aspetta un maschietto. E Giovanna, commercialista professionista, che al rientro dalla maternità l’hanno piazzata a fare fotocopie. E Manuela, il marito e i due figli, tutti tornati a vivere coi nonni perché diversamente non si riesce coi lavoretti saltuari. E Alona, che sa russo, inglese e italiano ma ha più di trent’anni, una figlia piccola e questo la frega ai colloqui. E Francesca e Alessandra che hanno superato i 35 e hanno deciso di provarci lo stesso a diventare madri, nonostante un lavoro incerto e i conseguenti possibili guai in arrivo. E le infermiere di Padova  che vanno in maternità e mandano in crisi l’azienda …. Tutte queste donne hanno una cosa in comune: vogliono produrre cambiamento.

E, fortunatamente, possono ispirarsi a quei contesti evoluti in cui Maternità e Cura sono pietre angolari di nuovi modelli economici e aziendali dello sviluppo sostenibile a livello umano, quello basato sulla genitorialità sociale,  da cui davvero nessuno è escluso.

Perché in Italia inizia ad esserci anche questo tipo di eccellenza che desideriamo divulgare e accrescere.

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