Marina Abramovič spiegata ai bambini

Marina Abramovič spiegata ai bambini

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Palazzo Strozzi ha dedicato la sua prima grande mostra  “al femminile” – “The Cleaner”, appena conclusasi con successo – alla nonna/ragazza eterna  della performance art Marina Abramovič. E’ stata l’occasione per offrire, finalmente, un articolato percorso organico sulla sua produzione artistica anche al grande pubblico italiano, proprio in un momento in cui i temi trattati sono più che mai presenti. L’immaterialità della performance, la negazione del manufatto artistico tradizionale e la rielaborazione del concetto di unicità, l’indagine sugli stati interiori e la condivisone attraverso l’audiovisivo,  sono solo alcuni dei ponti che dagli anni ’70 dello scorso secolo ci troviamo agganciati a questo 2019. E a lanciarli è stata Marina, l’inarrestabile visionaria, sicuramente bendata mentre scagliava al mondo, e molto spesso proprio dall’Italia, le sue esperienze profetiche. E’ il 1974 quando alla Galleria Diagramma di Milano,  Marina presenta l’opera  “Rhythm 48”: <Ero nuda e sola in una grande stanza, accovacciata sopra un potente ventilatore industriale. Mentre una videocamera trasmetteva la mia immagine al pubblico nella stanza di fianco, spingevo la faccia contro il vortice che usciva dal ventilatore, cercando di inspirare nei polmoni più aria possibile. Nel giro di un paio di minuti, l’impetuoso flusso d’aria all’interno del mio corpo mi fece svenire. […] la cosa più importante era farmi vedere in due stati diversi: vigile e priva di sensi. Sapevo di sperimentare nuovi modi per usare il mio corpo come materia prima>. Qui 2019, Marina ce l’ha fatta: si è imposta allo scenario artistico mondiale attraverso l’autodeterminazione e l’incessante sperimentazione della sua propria persona, del suo proprio corpo. I miei figli hanno una otto anni appena compiuti e l’altro quasi sei. Con il padre decidiamo che questa sarà la loro prima grande mostra. E per nostra grande fortuna, negli ultimi affollati giorni, riusciamo ad unirci ad uno dei percorsi guidati che Palazzo Strozzi ha pensato per raccontare quest’affascinante storia  ai più piccoli: il percorso per bambini dai sei ai dodici anni “Vestirsi d’energia”. Ci sono due ragazze nella stanza e ci distribuiscono delle etichette adesive su cui ognuno di noi deve scrivere il nome. Saremo un gruppo coeso, formato da piccoli nuclei famigliari,  che attraverserà la mostra in mezzo a una folla di singoli spettatori. Noi saremo una squadra e la mostra non la visiteremo ma ne faremo esperienza, impegnandoci a concentrarci, metterci alla prova e potenziare l’energia, lo scriviamo anche su un contratto. E qui vedo la difficoltà di mia figlia che, prima di firmare, con gli occhi mi dice “ma io voglio stare solo con te mamma, e con papà. Al massimo Fede. Ma tutte queste altre persone, perchè?”. So che supererà questa resistenza iniziale, lo fa sempre. Ci distribuiscono una mascherina per gli occhi e la indossiamo. Impariamo a fare silenzio. Impariamo ad urlare e a creare energia con le nostre mani. Facciamo gli esercizi che fa Marina per   riscaldarsi. E siamo pronti per entrare in mostra.

pitti immagine bimbo e proj3ct studio6pitti immagine bimbo e proj3ct studio0pitti immagine bimbo e proj3ct studio1La prima tappa è il lavoro di Marina con Ulay. Ci sediamo a osservare proiettato in grande sul muro “Rest Energy”

Due persone che si amano. Lui punta la freccia al cuore di lei. Lei tiene l’arco. I quattro minuti più lunghi della loro vita, diranno poi. Una performance che non hanno mai ‘provato’ e che non rifaranno mai più. Un’istantanea del loro rapporto nel momento di massimo splendore. Ognuno condivide le sue osservazioni con il gruppo, io mi accorgo adesso che non si vede mai il viso di Ulay. I miei bambini non dicono niente ma quando il filmato l’hanno visto a casa hanno detto “questi sono matti, è pericoloso”. Poi ci spostiamo ad osservare gli oggetti magici che Marina e Ulay hanno messo insieme dopo il loro allenamento con gli Aborigeni, in Australia. Un piccolo elefante di pietra, dell’oro grezzo, un cristallo rosa, una bacchettina di carta. Nel deserto hanno imparato come accumulare energia in condizioni estreme (caldo forte, poco cibo, poca acqua). E questa energia servirà loro nelle performance che faranno in giro per il mondo, insieme. Hanno imparato a caricare gli oggetti di energia, in modo da poterli usare per sostenersi nei momenti più difficili. Ci spostiamo davanti a The Lovers, la sala è affollatissima e noi siamo fortunati perché del video che gira in loop ci capita l’incontro finale di Marina e Ulay che decreterà la loro separazione.

Che era poi la parte che speravo di non vedere perché, come per la scena di E.T in cui i ragazzi volano con le biciclette e c’è di sfondo la luna, non riesco a bloccare i lacrimoni. Quindi piango, un po’ vergognandomi, davanti ai miei figlie e al gruppo coeso che, senza parlare, mi dice non importa, va bene così. Le ragazze spiegano il ruolo del destino nell’arte di Marina: quella traversata avrebbero voluto farla fin dall’inizio della loro relazione, solo che prima di riuscire ad ottenere tutti i permessi dalla Cina ci hanno messo otto lunghi anni. Le cose nel mentre sono cambiate ma il loro rigore e la loro necessità di sperimentare li ha portati a non rinunciare al progetto. Solo che invece che il loro grande amore si sono trovati a celebrarne, in grande, la fine. Un amico che ha visto il video per la prima volta il giorno stesso della mostra ha così commentato “quella freccia che Ulay tendeva anni prima, l’ha scagliata in quell’incontro”. Ci spostiamo nella sala delle pietre e della casa con le scale a coltello.

(c)giulia del vento_strozzi_07.10.2018_bassa (28 di 57)(c)giulia del vento_strozzi_07.10.2018_bassa (23 di 57)(c)giulia del vento_strozzi_07.10.2018_bassa (27 di 57)the cleaner

Qui ognuno riceve un foglietto su cui è scritto un esercizio da fare. A me, mia figlia e mia nipote capita “la sedia”. Ci dobbiamo sedere su una bella sedia il cui schienale è rivestito di cristalli rosa, concentrarci e registrare cosa sentiamo per poi condividerlo con il gruppo. Io e mia nipote sentiamo calma, mia figlia sente fiducia.  Le ragazze ci raccontano di quella strana casa con le scale taglienti in cui Marina ha vissuto per dodici giorni all’interno del Moma a New York. C’erano un sacco di regole da osservare: non si poteva mangiare, non si poteva parlare, bisognava trovare dei modi alternativi alla parola per interagire con il pubblico che osservava l’artista nella sua lunga performance. Ci raccontano che quando Marina alla fine è scesa, non dalle scale ma con un carrello elevatore, era molto molto stanca e ogni suo gesto era a rallentatore. Ci spostiamo nell’ultima stanza, quella in cui c’è The Artist is Presnt

Qui, grazie a Dio, non ci capita il frammento con Ulay (che però vi metto sopra). Ci sono le foto a mosaico di alcune delle tantissime persone che nell’arco dei trenta giorni sono andate a sedersi al tavolo di Marina. Le regole erano: stare fermi, non parlare, guardarsi negli occhi fino a che la persona che si era seduta non decideva di andarsene. C’è stato un signore, Paco, che è tornato ventuno volte da Marina. C’era più di una sua foto, ogni volta si pettinava e vestiva con cura , in maniera diversa. Qualcuno ha detto che sembrava un corteggiamento. C’erano persone che piangevano, alcune che si trattenevano dal ridere, alcune con l’espressione neutra. Marina ha fissato lo sguardo di tutti loro, entrando dentro i loro occhi sul mondo per il tempo che a loro serviva.  Eccoci alla fine del nostro percorso, ora tocca a noi. Torniamo nella nostra stanza iniziale, quella in cui abbiamo firmato il contratto. C’è un grande tavolo con degli oggetti magici e noi ci disponiamo in due file da dieci. Ognuno deve avvicinarsi molto lentamente al tavolo e scegliere con cura un oggetto. Quello che avevo puntato, un foglio d’oro tutto stropicciato, lo prende mio figlio che sta in prima fila e mi batte sul tempo. Allora faccio una seconda scelta, un tessuto viola. Deve restare lì per me, però. E così accade, sono l’ultima ad avvicinarsi al tavolo e lo trovo ad aspettarmi.  Veniamo divisi a coppie, capito con mia nipote. Ognuno mette il suo oggetto al centro vicino a quello dell’altro, lei ha una piccola conchiglia. Con delle cuffie per l’isolamento acustico proviamo a guardarci negli occhi, senza muoverci, senza parlare, per il tempo che serve. Gli occhi di mia nipote sono proprio gli stessi di quelli di mio fratello. Mentre la guardo le dico che le voglio bene, che sono fiera di lei, che ce la faremo. E lo dico anche a mio fratello. Lei a volte si fa seria, a volte quasi sorride, è una bambina/ragazza e ha tutto il dentro che si muove.

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Finisce così la nostra bellissima avventura di conoscenza. Salutiamo i compagni di viaggio e le guide. Ci mettiamo in tasca un sacchetto di riso e lenticchie, serve a imparare qualcosa sul nostro tempo, ognuno ne ha uno tutto suo e se si vuole scoprirne qualcosa, basta mettersi a separare i chicchi di riso dalle lenticchie.

Grazie a Palazzo Strozzi per questo racconto a misura di bambino sulle avventure di Marina Abramovič. Grazie a Pitti Bimbo per alcune delle fotografie e per aver offerto questa giornata alle famiglie. Per tutti gli altri percorsi speciali trovate info e date sul sito di Palazzo Strozzi.