una Casa di bambola

una Casa di bambola

C’è solo un velo sottilissimo tra il piccolo mondo antico di Ibsen e il nostro, centotrentasette anni dopo. Le buone maniere dai toni pastello ancora tengono in catene le nostre identità femminili e maschili e il nuovo enciclopedico galateo dell’omologazione non lascia nulla al caso, prevede e descrive ogni variante.

Marina Rocco è Nora, deliziosa prigioniera di un interno piccolo borghese ormai spoglio e gravato dai debiti. Con la gola cinguetta la parte della giovane padrona di casa in ascesa sociale e con il diaframma e il volto, a tratti pietrificato da una disperazione non autorizzata, sabota la messa in scena intollerabilmente manierista di Andrée Ruth Shammah che obbliga il pubblico a confrontarsi con analogie indesiderate.
Marina Rocco interpreta la finzione coatta e la lotta durissima per svincolarsene. Resiste confinata tra impeti e parole infantili fino a traghettare il suo personaggio alla lucida liberazione del finale, in una sobria e violenta fatica che rende la sua interpretazione un’ esperienza di emancipazione.

Filippo Timi interpreta il patriarcato e si destreggia, domando la sua potenza istrionica, tra ego/Torwald, alterego/Krogstad e alias/Dottor Rank, riservando solo a quest’ultimo personaggio debole e malato la struggente consapevolezza del ruolo di pedina. Il patriarcato come l’acqua per i pesci, questa è l’interpretazione di Timi a cui va il merito, notevole e sottile, di non essersi comportato da padrone di casa.

Andrea Soffiantini con la sua interpretazione della vecchia balia, e Mariella Valentini nei panni dela signora Linde, offrono al pubblico la rassicurante sfaccettatura della repressione “a fin di bene” di Nora, di cui questo debutto di Una Casa di Bambola nel teatro della provincia italiana del 2016 è il manifesto.

cdb